venerdì 21 ottobre 2016

Il cibo come droga: sono dimostrate sia l’assuefazione che la dipendenza


Prendo spunto dalla relazione effettuata dal Dr. Alessandro Tasca presso l’Università Campus Biomedico di Roma (“Caratterizzazione del circuito dopaminergico nel controllo dell’assunzione e nella ricompensa del cibo: implicazioni nell’obesità”), per avvalorare con elementi di tipo scientifico quel che già da tempo ho segnalato nei miei articoli e in un video sull’alimentazione infantile.

Il carattere divulgativo di questo scritto  impedisce di scendere in particolari che renderebbero meno comprensibile e più noiosa la lettura ma, nondimeno, tenteremo di rendere ragione, semplificando molto, dei meccanismi che sono alla base della dipendenza da cibo che inizia già molto precocemente, a partire dall’epoca dello svezzamento. Richiediamo semplicemente un po’ di pazienza nella lettura: è importante conoscere le dinamiche cerebrali che sono alla base della dipendenza per prenderne coscienza e cercare di evitarne i danni, specie per ciò che attiene ai risvolti negativi che in età pediatrica iniziano a manifestarsi e che nell’età adulta provocano veri e propri disastri (obesità, dislipidemie, diabete, infarto, ictus, ipertensione arteriosa).

La fame è una forma di sindrome da astinenza. A ben pensarci, il fatto di avere fame (quindi uno stimolo alla ricerca di cibo gradevole e calorico) è una forma di dipendenza da cibo fisiologica che ci impedisce di morire. Lo stimolo fisiologico, però, una volta soddisfatto con l’assunzione di cibo adeguato, spegne l’urgenza di ricerca fino a che non ritorna lo stimolo della fame per fenomeni legati al movimento di metaboliti e di ormoni secreti a seguito del calo, ad esempio, degli zuccheri o dei grassi nel sangue.

In periodi di carestia inoltre i meccanismi garantiscono non solo l’impulso a ricercare cibo tout court ma (e questo è illuminante) a scegliere quello più calorico (ricco in grassi e zuccheri) e quindi adatto, oltre che a saziare, a creare scorte sotto forma di adipe e di glicogeno epatico. Risulta abbastanza semplice comprendere come vi sia, quindi, una predisposizione neuro-ormonale a monte, che spinge a preferire questi alimenti dato che il loro alto contenuto in nutrienti coincide quasi sempre con una maggior gradevolezza al palato.

I centri nervosi che sono preposti alla fame ed alla sazietà (nuclei della base e più in generale nuclei talamo/ipotalamici) funzionano usando un neurotrasmettitore, denominato dopamina, i cui recettori sono situati nelle porzioni profonde del cervello. Questi centri nervosi sono gli stessi su cui agiscono – e questo è cruciale – alcuni farmaci psicoattivi (cocaina, cannabinoidi, nicotina, amfetamine, ecc.).

Gli ormoni che sono attivi nel regolare la sensazione di fame e sazietà vengono invece prodotti a livello dell’intestino (ghrelina, orexina, ecc.), del tessuto adiposo (leptina, ecc.), del pancreas (insulina). La leptina inibisce il senso di fame e di ricerca del cibo, l’orexina e la ghrelina lo incrementano, l’insulina lo deprime.

La sensazione di fame (astinenza fisiologica da cibo) si innesca prima che si verifichino sintomi (tremori, capogiri, sudorazione fredda, in casi estremi perdita di coscienza) in modo da sfruttare l’energia residua per rendere efficiente la ricerca di cibo.

In un mondo come l’attuale, però, avviene qualcosa che in natura non è normale e che altera i meccanismi alla base della fisiologica ricerca di alimento: la reperibilità di cibi gratificanti è semplice, non richiede sforzo e soprattutto da un’ampia possibilità di scelta. Questo significa una cosa fondamentale: il cibo viene ricercato non per soddisfare una necessità metabolica ma per ottenere una gratificazione. Questo, in termini pratici, si traduce in una alterazione del comportamento alimentare.

All’inizio di questo articolo dicevamo che il senso di fame, una volta soddisfatto, interrompe il riflesso di ricerca di alimento fino alla prossima occasione: ebbene, la facile reperibilità di alimento sapido e grasso ha stravolto la situazione. In termini semplici non si ricerca più il cibo in quanto necessario al mantenimento del benessere fisico, ma lo si ricerca per l’attivazione di un fenomeno di dipendenza mediato dalla dopamina. Non si ha bisogno più di mangiare sostanze ipercaloriche perché necessario ma se ne ha bisogno perché l’astinenza può determinare facilmente sintomi sia fisici che psicologici (ricerca di gratificazione dopamino-dipendente).

Alcuni alimenti più di altri hanno la tendenza ad innescare dipendenza. In particolare gli zuccheri, i grassi e le spezie/salse (alimenti sapidi sia per il contenuto salino sia per lo stimolo esercitato sulle papille gustative): l’astinenza da zuccheri determina tremori, sudorazione; quella da grassi induce ansia.

Nella sua esposizione, (estremamente complessa e particolareggiata), il relatore ha riportato un esempio sperimentale (ricavato da uno studio recentissimo pubblicato su Appetite) attuato su un particolare ceppo di ratti da laboratorio. Proverò a riassumerlo in termini comprensibili perché veramente ne vale la pena.

Per 8 settimane due gruppi di ratti sono stati nutriti con due tipi differenti di alimenti: il primo con mangime normale bilanciato, il secondo con alimenti tipici della caffetteria (pancetta, biscotti al cioccolato, patatine fritte, burro di arachidi, crema di nocciole, formaggio). Dopo le 8 settimane il gruppo di ratti alimentati con cibo da caffetteria è stato a sua volta suddiviso in due gruppi: il primo è stato sacrificato per la raccolta di campioni e per la valutazione ematochimico-istologica, il secondo è stato tenuto in vita per altri tre giorni durante i quali è stato nutrito con mangime standard bilanciato sospendendo la dieta a base di prodotti di caffetteria.

Lo studio ha portato a constatare un dato importantissimo: dopo sole 8 settimane nel gruppo dei ratti sottoposti per 3 giorni a deprivazione di cibo da caffetteria si è verificata astensione dal mangime standard bilanciato e quindi digiuno. Hanno avuto infatti una diminuzione del peso e della massa grassa rispetto al gruppo di controllo che aveva sempre continuato ad assumere mangime standard bilanciato.

Quale è il significato profondo ed inquietante di questo studio? Che in caso di dipendenza da cibo “palatabile” (molto saporito, dolce o grasso) i meccanismi di ricerca dell’alimento sono alterati. Non si ricerca più solo cibo ma quel tipo di cibo.

I risvolti, per l’uomo, sono di importanza cruciale. In una società come l’attuale (mi riferisco ai Paesi cosiddetti “ricchi”) dove la reperibilità di alimenti di quel genere (caffetteria) è semplice ed ubiquitaria, il fenomeno genera ovviamente l’obesità e la dipendenza. Non si tratta più, infatti, di soddisfare emergenze alimentari in momenti di carenza: si mangia quello e solo quello ed ogni alimento che non contenga quelle sostanze così gratificanti viene evitato anche se indubbiamente più sano. Chi è assuefatto al cibo da caffetteria non riesce semplicemente più a mangiare altro perché lo trova disgustoso, insipido e poco stimolante a livello dei circuiti cerebrali di ricompensa.

Le industrie produttrici di alimenti “pronti” e “precotti” e le catene di “take away” (oltre che una buona quantità di produttori di cibi cosiddetti “per l’infanzia”) sfruttano questo meccanismo per l’incremento delle vendite: aggiungono grassi, zuccheri, spezie e salse poiché chi si abitua a mangiare questi cibi semplicemente non vuole più altro e non solo…tende ad assumerne sempre di più.

Attenzione dunque, già nella fase di svezzamento: usare sempre cibi freschi, preparati in casa, evitare dolci e grassi in eccesso, e quando i bambini sono più grandicelli evitare di ricompensarli con cibi (caramelle, dolcetti o cioccolatini).

L’assuefazione e la dipendenza iniziano da bambini!! Occorre sempre essere logici e consapevoli di quanto dannose siano certe abitudini e di quanto poi sia difficile uscire dai problemi che queste abitudini determinano nel tempo.


Stefano Tasca, Alessandro Tasca


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